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Trilogia della città di K. – Ágota Kristóf – Recensione

Trilogia della città di K. (Trilogie des jumeaux) è un romanzo della scrittrice ungherese naturalizzata svizzera Ágota Kristóf. Si compone di tre parti: Il grande quaderno (Le grand cahier), pubblicato separatamente nel 1986, La prova (La Preuve) del 1988 e La terza menzogna (Le Troisième Mensonge) del 1991. In Italia il libro è edito da Einaudi.
I romanzi raccontano la vita di due gemelli, Lucas e Klaus, dei loro familiari e delle persone che essi conoscono e con cui intrecciano rapporti durante la seconda guerra mondiale e successivamente, fino ai giorni nostri. Per tutto il libro i due gemelli appaiono come personaggi interscambiabili in un rapporto dapprima morboso, poi incredibilmente distaccato.

Ci ho messo un po’ a scrivere questa recensione perché questo libro è misterioso e doloroso. L’ambientazione grigia e cupa pesa su tutte le parole di tutte le pagine ed è impossibile per il lettore staccarsi di dosso quella sensazione di umido che questo romanzo si porta appresso. Nelle prossime righe spero di riuscire a condividere con voi un po’ della mia esperienza, che mi porta a consigliare questo libro senza nessun dubbio.

Il libro primo comincia con una narrazione in prima persona plurale secondo il punto di vista dei due fratelli gemelli protagonisti, che raccontano la loro infanzia passata nella città di K., una città fittizia ma sicuramente collocata in una nazione dell’est Europa che, al tempo dei fatti, era in guerra. La madre dei due gemelli, per colpa della guerra, li affida alla nonna che è una donna avida e rude, anche se con il tempo imparerà, a suo modo, ad amarli. Vive in una casa “indipendente”, mangia le verdure del suo orto, beve il latte dei suoi animali, non interagisce quasi con nessuno, parla poco e custodisce gelosamente i suoi gioielli, piccola fortuna nell’immensa povertà che la circonda.

“Nonna non si lava mai. Si asciuga la bocca con un lembo del fazzoletto quando ha mangiato o quando ha bevuto. Non porta mutande. Quando ha bisogno di orinare, si ferma lì dove si trova, allarga le gambe e piscia per terra sotto la gonna”

I due gemelli crescono con un’intelligenza fuori dal comune, passano le giornate a tagliare legna, pescare, badare all’orto e agli animali. Studiano da soli, imparano varie lingue e a suonare, a cantare e a resistere al freddo, alla fame e al dolore, attraverso esercitazioni a cui decidono di auto-sottoporsi (picchiarsi e insultarsi a vicenda per sopportare dolore e umiliazione, digiunare per resistere alla fame). Annotano tutto quello che accade, creando così il Grande Quaderno del titolo.

Recensione

Il racconto della guerra dal punto di vista dei bambini è sempre affascinante e toccante. L’autore sfrutta il punto di vista infantile – privo di costruzioni e fronzoli – per raccontare i fatti con il distacco tipico dell’innocenza, senza l’artifizio dell’orrore. I due gemelli risultato cinici, indifferenti al dolore degli altri; eppure, disposti ad aiutare i più deboli. Sfuggono all’autorità, evitano la scuola fingendosi uno sordo l’altro cieco, vivono in un’atmosfera surreale e solitaria che alimenta il loro autismo sociale.
Stupro, violenza, omicidio, morte sono i temi che accompagnano ogni passo del romanzo ma, laddove un personaggio “comune” avrebbe avuto reazioni disperate o arrabbiate, i personaggi di Trilogia della città di K. sono indifferenti, rassegnati.
Lucas e Kris nella narrazione si confondono, anche quando – dal secondo libro in avanti – non leggiamo più in prima persona plurale. Il distacco è così netto e doloroso che dà fastidio, stride con l’unicità quasi simbiotica che abbiamo gustato fin dalla prima pagina. Il dolore è inevitabile.

“Siamo nudi. Ci colpiamo l’un l’altro con una cintura. Diciamo a ogni colpo: – Non fa male. Colpiamo più forte, sempre più forte. Passiamo le mani sopra una fiamma. Ci incidiamo una coscia, il braccio, il petto con un coltello e versiamo dell’alcol sulle ferite. Ogni volta diciamo: – Non fa male. Nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. È qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre. Non piangiamo più.”

Futurismo

Nel secondo libro leggiamo il distacco dovuto alla fuga, e la storia di Lucas che rimane nella città di K., che sembra acquisire una conformazione più normale dopo che egli si sposta dalla casa in campagna della nonna. Lucas fa la sua vita, tra libri e quotidianità, fronteggiando le conseguenze della guerra anche nelle vite degli altri, monche, spezzate, mutilate nell’anima e nel corpo.
Senza spoilerare i suoi amori e le sue storie, Lucas, grazie alla sua intelligenza fuori dal comune, riuscirà e sopravvivere e anche a trarre beneficio da alcune dinamiche post-belliche, che hanno messo in pericolo molti altri. Solitudine, orfani, invalidità, omosessualità, suicidio, sono alcune delle latenze conseguenze di una società bellica tende inesorabilmente al risanamento, al ritrovo della vita, seppur incapace di dimenticare il passato.

L’ultima parte

Ne La terza menzogna, ovvero l’ultimo libro, l’autrice sconvolge di nuovo le carte, proponendoci una versione del tutto alternativa della storia sino ad allora raccontata. I nomi anagrammatici dei fratelli cambiano, la prospettiva della storia si capovolge. Potrebbe essere stato tutto frutto dell’immaginazione di un pazzo? Una nuova trama possibile, che non sappiamo se l’autrice abbia elaborato in seguito o se fosse in programma fin dall’inizio. Il lettore ne esce confuso, senza risposte chiare, e nemmeno su internet – ahimé – si trovano quelle risposte. Il romanzo Trilogia della città di K. va goduto così, per quello che è, misterioso e doloroso, indimenticabile e grandioso.

“Certo, Mamma. Scusami, ho un sonno tremendo.” Mi metto a letto e prima di addormentarmi parlo mentalmente a Lucas, come faccio da molti anni. Quello che gli dico è più o meno la stessa cosa di sempre. Gli dico che se è morto, beato lui, e che vorrei essere al suo posto. Gli dico che gli è toccata la parte migliore e che sono io a dover reggere il fardello più pesante. Gli dico che la vita è di un’inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l’immaginazione. Sarah non la rivedo più. Certe volte mi sembra di riconoscerla per strada, ma non è mai lei.”

Un po’ dell’autrice di Trilogia della città di K.

Inevitabilmente, con tutte le domande che mi hanno colto dopo aver finito il romanzo, ho voluto esplorare la biografia di questa scrittrice, per sapere da qualche mente fosse nato un romanzo così particolare, insolito, eterno.
Nata a Csikvánd il 30 ottobre 1935 e morta a Neuchâtel il 27 luglio 2011, Ágota Kristóf è stata una scrittrice di origini ungheresi, vissuta in Svizzera ma che, nelle sue opere, scelse il francese come lingua di adozione. E non che se ne servisse per sola ambizione letteraria: l’utilizzo che l’autrice faceva dell’idioma francese era piuttosto espressione di finalità pratica, la necessità di una grammatica vissuta – ma corretta – per essere compresa nel profondo, fino al significato stesso delle sue parole. E a chi le chiedeva se si sentisse portavoce della letteratura nazionale ungherese – o se invece di quella franco-svizzera, o apolide – ella sempre rispondeva “ungherese”. Perché, nonostante tutti i suoi romanzi fossero scritti in lingua straniera nella penna dell’autrice era invece racchiusa tutta la circolarità della sua Storia: la rivoluzione ungherese del 1956, il suo arrivo in Svizzera da completa illetterata, il ritorno in Ungheria nel 1968. Quando nulla era più come se lo ricordava, tantomeno la città di K.

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Chi Sono

Claudia Neri

Ho 25 anni e amo scrivere, viaggiare, mangiare e fare capoeira. Ho studiato lingue e mi occupo di comunicazione digitale ed editing letterario. Mi piace esplorare il mondo e le persone, scoprire nuovi punti di vista e amare sempre. Questo blog è il mio passaporto per l’eternità.”

“Abbi un cuore insaziabile, affamato di vita, senza paura del dolore”

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