Lamento di Portnoy è un romanzo di Philip Roth pubblicato nel 1969.
Il romanzo è strutturato come un ininterrotto monologo del narratore, Alexander Portnoy, un ebreo americano, che parla al suo psicanalista, il dottor Spielvogel, prima che quest’ultimo inizi la terapia prevista.
Suddiviso in sette capitoli dai titoli alquanto originali (nella traduzione italiana, il secondo e il quarto si intitolano rispettivamente Seghe e Figomania), ha come filo conduttore l’alternanza dei piani temporali prodotta dalla rievocazione memoriale del protagonista-narratore: nevrotico, erotomane, morbosamente attaccato alla madre e alle tradizioni ebraiche, spesso dileggiate e ridicolizzate.
Alexander Portnoy è uomo di successo, eppure è incapace di trovare stabilità e cerca disperatamente una moglie, una famiglia, dei figli.
La sua intelligenza è completamente oscurata dalla sua insoddisfazione, dalla ricerca spasmodica della felicità, che egli ricerca negli eventi della vita, invece che in sé.
Da Newark a New York, dalla Grecia fino in Israele, Portnoy si porta dietro le sue manie, i suoi tic, le sue idiosincrasie e le sue morbosità sessuali, alla disperata ricerca di una banale, ordinaria, normalità.
“Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la campanella dell’ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l’avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo. Al mio arrivo lei era già regolarmente in cucina, intenta a prepararmi latte e biscotti. Invece di spingermi a lasciar perdere le mie fantasie, il fenomeno non faceva che aumentare il mio rispetto per i suoi poteri. Ed era sempre un sollievo non averla sorpresa nell’atto dell’incarnazione, anche se non smettevo mai di provarci; sapevo che mio padre e mia sorella ignoravano la vera natura di mia madre, e il peso del tradimento, che immaginavo avrei dovuto affrontare se l’avessi colta sul fatto, era più di quanto intendessi sopportare all’età di cinque anni. Credo addirittura di aver temuto che, qualora l’avessi vista rientrare in volo da scuola attraverso la finestra della camera o materializzarsi nel grembiule, membro dopo membro, da uno stato d’invisibilità, avrei dovuto per questo morire.”

Alexander Portnoy è infatti condizionato in ogni suo processo mentale dalla figura ingombrante di sua madre, che l’ha tormentato con la sua presenza ossessiva e coi suoi comportamenti iper-protettivi. Dall’ altro lato suo padre è un uomo, almeno agli occhi del figlio, mediocre e costretto a portare avanti una vita senza prospettive né ambizioni, schiacciato dalla figura dominante di sua moglie che applica in casa una tirannia del tutto psicologica, che tiene sotto scacco l’intera famiglia (a parte, forse, la sorella di Alexander, vero corpo estraneo della vicenda).
I temi
Dire che è un romanzo di formazione o di crescita sarebbe sbagliato, ma non del tutto. In Portnoy riconosciamo le ossessioni e i disagi di tutti gli adolescenti seppur in questo caso sono portati all’estremo e causati da condizioni sociali e personali che non tutti condividiamo.Alexander Portnoy cresce durante il racconto, ma non cambia; egli racconta i fatti e i pensieri che lo hanno portato ad essere com’è nel presente, ovvero quelli che secondo lui hanno condizionato la sua psicosi e dato vita alle sue psicosi. Non riusciamo però a percepire nel personaggio un’evoluzione, una crescita, un passo avanti. Ci sembra di vederlo soltanto soffrire, arrancare, alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui sa cosa sia.

“Vi sono persone che esistono in questo mondo non già come un oggetto a sé, ma come supplementari moscature o screziature d’un dato oggetto. Se ne stanno sedute sempre a quel posto, tengono sempre in quella posizione la testa: stai lí lí per scambiarle per un mobile, e pensi che da quando soli nate non è uscita mai una parola da quelle labbra. E invece in qualche altro luogo, nelle stanze delle cameriere, o in dispensa, verrà fuori né piú né meno… ohoh, oh!”
Lamento di Portnoy nell’opera di Philip Roth
Dello stesso autore ho recensito Pastorale Americana, che a mio parere ha uno spessore culturale, emotivo e sociale molto maggiore di questo.
La penna di Roth è inconfondibile, ma è difficile battere Pastorale americana quando si tratta di drammi e frustrazione sociale.
Ho letto anche Nemesi di Roth molti anni fa, e da lì ho iniziato ad apprezzare questo autore. Quello che mi piace di Roth è la sua penna schietta, senza filtri ma mai banale. Anche quando è volgare, il linguaggio dello scrittore non scende mai a mera scurrilità (come succede con Bukowski, che non mi piace). Roth ha l’incredibile capacità di dare un valore estatico a quello che scrive, anche quando i temi sono sesso, figa, masturbazione e droga.
“Dottore, forse gli altri pazienti sognano le cose…a me capitano tutte. Ho una vita senza contenuti latenti. […]Dottore: non riuscivo a farmelo stare ritto nello Stato di Israele! Che ne dice di questo simbolismo, bubi? Chi sarebbe capace di far meglio? Non riuscire a mantenere un’erezione nella Terra Promessa! Proprio quando mi serviva, quando lo volevo, quando c’era qualcosa di più desiderabile della mia mano da penetrare.”
Conclusioni

Consiglio questo libro a chi ha voglia di leggere un racconto schietto e dal linguaggio forte. Nel suo flusso di coscienza Portnoy ridicolizza sé stesso, la sua famiglia e ogni cosa del mondo ebraico, seppur rimanendo fondamentalmente sottomesso alla sua cultura.
Non è la mia opera preferita di Roth, però mi ha dato molti spunti di riflessione sulla cultura ebraico-americana e sulla frustrazione adolescenziale di certi ambienti. Inutile dire che è scritto magistralmente bene. Ma su questo non avevo dubbi.
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